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Ho seguito il filo della ribellione pura, l’acqua della vita.
Sono state le vostre mani a intorbidirla di morte,
ma eravate più forti e ho dovuto raccogliere le armi che mi avete consegnato.
Sono diventata come voi. Ho bevuto l’acqua della ribellione amara.

Siamo negli anni settanta, in un quartiere di periferia di una città del Nord, un casermone dell’edilizia popolare, un appartamento uguale a tanti altri. Attraverso il filo dei pensieri osserviamo la vita quotidiana di un uomo e di una donna, una coppia simile a tante altre. Ma dietro i gesti e le azioni della normalità – i piatti della cena nel lavandino, la sveglia del mattino, il caffè sul fuoco – si svela l’esistenza di due terroristi in clandestinità, e con essa i sentimenti di disperazione che possono alimentare la scelta estrema della lotta armata: la dimensione di una vita consumata nell’ombra, l’ansia di riuscire a mimetizzarsi, la paura di essere riconosciuti, l’ascolto dei passi e il controllo ossessivo dei vicini, nella speranza che tutto vada come deve andare…

L’esito della vicenda è noto, ma l’interesse sta nell’entrare nella mente e nella psicologia di quei figli della società della crescita economica e del benessere diffuso che hanno scelto di muovere guerra a un sistema capace di garantire soltanto quella pallida esistenza – la tragedia di una generazione che ha tentato l’ “assalto al cielo”.

Il testo è un adattamento teatrale del racconto di Ida Faré Come voi, pubblicato in Il pozzo segreto. Cinquanta scrittrici italiane (Giunti, 1993). L’autrice del testo, ai tempi giornalista de Il Manifesto, ha pubblicato anche Mara e le altre. Le donne e la lotta armata: storie, interviste, riflessioni (Feltrinelli, 1979).

Credits

Testo: Ida Farè
Regia: Aldo Cassano
Con: Natascia Curci
Assistente regia e suoni: Antonio Spitaleri
Video: Semira Belkhir, Marco Burzoni, Stefano Stefani, Federico Tinelli
Scenografia: Valentina Tescari
Luci: Giuseppe Sordi
Costumi: Lucia Lapolla

Produzione: Animanera / CRT Milano

Si ringrazia: Giorgio Galli, Davide Steccanella

Foto: Amleto Di Leo (amletodileo@gmail.com)
Manuela Piludu (manuelapiludu@yahoo.it)
Valeria Palermo

Press

Paperstreet.it - Giulio Sonno “Sono come voi.” È così che comincia Figli senza volto di Animanera. Natascia Curci solleva una super8 quasi fosse un’arma, la pellicola frulla come un colpo di mitraglia, lo sguardo apparentemente innocente è pronto a bersagliare l’intera società. Sotto le mentite spoglie di una “donna per bene” infatti si cela una brigatista clandestina, che si confonde nella società pigra dei consumi per colpirla quando meno se lo aspetta. Ma non ci sono solo gli anni '70, qui a parlare è una donna e la sua doppia rivoluzione, pubblica e privata, politica in senso radicale, perché tenta la propria rivolta contro una polis che mercifica tutto: lavoratori e donne, entrambi "oggetti" della morbosa virilità dominante. Questa anticamera dell'emancipazione è brillantemente scolpita (scene V.Tescari, luci B.Sordi, video S.Belkhir, M.Burzoni, S.Stefani) all'interno di un'alta parete verticale: oltre il velo dell'apparenza, su cui si impigliano pregiudizi e condizionamenti culturali (blob di videoproiezioni da Studio Uno a Carosello fino al trash televisivo odierno, quasi a dirci “È per questo che ci si è uccisi a vicenda?”), emerge infatti l'intimità, drammatica eppure semplice, di chi finisce per sentirsi comunque sconfitto. Essenziale, misurato, delicato, Figli senza volto si scarta dalla trappola dell'ideologia, evocando attraverso un felicissimo equilibrio di silenzi, parole e gesti interrotti la dimensione più universalmente umana del ribelle (regia Aldo Cassano).

Paneacquaculture.net - Renzo Francabandera Dietro un velo che dovrebbe nascondere l’interprete dall’intimità con il pubblico ma che in realtà non protegge né la protagonista né gli spettatori dallo scambiarsi sguardi e intese ambigue, Natascia Curci abita un interno da fine anni Settanta-inizio Ottanta per “Figli senza volto”, nuovo spettacolo di Animanera, collettivo artistico milanese attivo da anni in un’area fra il performativo e il teatrale. Dopo gli spettacoli con i testi di Magdalena Barile, l’ultimo triennio, con le residenze al Pim Off e ora al CRT, ha portato ad una nuova evoluzione del linguaggio della compagnia, che sta coincidendo con una maturazione e un affinamento estetico assai significativo. In particolare uno stimolo notevole a questa evoluzione è arrivata dall’interesse per la tematica degli anni di piombo e il confronto con quel tempo, che per i sodali di Animanera è coinciso con il tempo dell’infanzia/gioventù, quindi un’epoca del ricordo evanescente, della realtà vissuta con la mediazione della consapevolezza adulta altrui, spesso affioranti con qualche documento audio video delle teche RAI, ritagli di giornale nei cassetti o negli scatoloni di qualche parente attento e documentato. E così inizia, con una scatola dei ricordi, da cui affiorano foto bianco e nero di volti in primo piano e ritagli di giornale, in un interno, pochi metri quadri, pareti bianche, un tappeto, un giradischi e una tv di quegli anni. Dei 33 giri. Un posacenere. Una mela. Interno bianco con donna. Anche lei vestita prima con un lungo maglione di tonalità fredda. Questa la scena, realizzata da Valentina Tescari, con i costumi di Lucia Lapolla. Non un bianco e nero, ma verrebbe da dire una foto seppia, che ritorna dagli archivi della memoria. A questo effetto contribuiscono in maniera essenziale altri due ingredienti della costruzione scenica, ovvero le luci di Beppe Sordi e i suoni ripetitivi, ticchettii incessanti di Antonio Spitaleri. Due elementi che interagiscono praticamente in tempo reale con la recitazione di Natascia Curci, interprete e co-regista dello spettacolo con Aldo Cassano. Lo spettacolo, dal punto di vista drammaturgico, è una sorta di ampliamento di “Come voi”, adattamento teatrale del racconto di Ida Faré Come voi, pubblicato in Il pozzo segreto. Cinquanta scrittrici italiane (Giunti, 1993). L’autrice del testo, ai tempi giornalista de Il Manifesto, ha pubblicato anche Mara e le altre, e dopo la prima messa in scena di Animanera su una versione più strettamente legata al suo racconto ha deciso con la compagnia di approfondire e ampliare il dato testuale per arrivare ad una nuova drammaturgia, affidata sempre al corpo della Curci. Una femminilità, quella che l’interprete regala alle parole, che per larga parte della messa in scena è quasi performativa, e si completa, nella sua descrizione, con gesti, sguardi, piccole azioni. Ne viene fuori una ricca e interessante azione attorale, in cui la Curci cresce con lo spettacolo, forse più incline alle sfumature della seconda psicologia femminile fra le due raccontate, quella per così dire “sovversiva”. Infatti nei 50 minuti di spettacolo i pochi spettatori ammessi al di qua del velo, osservano e sono osservati da una donna che a lungo descrive una sua sostanziale adesione agli schemi della società di cui siamo parte. E’ poi pian piano che questa donna, attraverso una metamorfosi di vesti ma anche psicologica, arriva a rivelare la sua altra identità. In questo tempo lo spettatore riflette su di lei, su di sé, sul proprio tempo, sulla meccanica che lo caratterizza e lo domina, in cui ognuno di noi si sente un po’ pollo nella batteria del produci – consuma – crepa. E anche non sentendosi terroristi in nessun modo, e anzi nonviolenti come la gran parte degli spettatori immaginiamo sia, quasi si prova una strana nostalgia non per quella pazzia, ma per il solo sogno adrenalinico di poterla avere. Stamattina, mi sono alzato e mia figlia di 2 anni mi ha raccontato di aver sognato il gatto con gli stivali. Ecco, questo spettacolo prima di tutto e nell’assurdità di aver di fronte un personaggio da cui per la gran parte siamo distanti, ci mette davanti ad una frustrazione, all’impossibilità di sognare quella segretissima e inconfessabile, digitalmente a quei tempi invisibile, folle idea di poter cambiare la società a proprio desiderio. Fosse anche in modo ghandiano, nonviolento. Un pensiero che il nostro tempo ha affidato al pensiero debole, con la Coca Cola che ruba in un suo spot (che lo spettacolo riprende) le immagini delle rivolte studentesche degli anni settanta per addomesticarle alle bollicine. E l’onnipresenza social, le celle a cui siamo agganciati passo dopo passo con il cellulare in tasca, le mille telecamere, il mondo orwelliano di cui siamo prigionieri, a salutaci con un pollice blu levato. E tutto ci appare irrimediabilmente irreversibile e ineluttabile. Senza poter nemmeno non dico fare, ma nemmeno tifare per una rivolta credibile. Ma anche incredibile. Neanche per un gatto con gli stivali.

Delteatro.it - Renato Palazzi Animanera presenta, per la regia di Aldo Cassano, Figli senza volto, una scarna scheggia dei nostri “anni di piombo”, un frammento della cupa cronaca di un passato non troppo lontano, ricavato da un breve racconto – intitolato Come voi – di Ida Farè, ex-giornalista del “Manifesto”, sulla quotidianità di una coppia di terroristi. Mi è piaciuto il taglio asciutto, concreto e per certi versi addirittura oggettivo, quasi improntato a un distacco “scientifico”, con cui Cassano si è accostato a una testimonianza che si potrebbe definire antropologica, un materiale da studiare, più che un’esperienza individuale dalla quale prendere più o meno le distanze. L’azione si svolge in un’angusta stanzetta strettamente a ridosso della minuscola platea, separata solo da un velario che scontorna appena, come in una vecchia foto, l’immagine dell’unico personaggio alla ribalta, una giovane donna interpretata dall’eccellente Natascia Curci. Lei è molto brava nel suggerire una sorta di stanchezza dell’ideologia, un’inconfessata nostalgia per quella “normalità” che viene colta nelle vite dei vicini, il caffè del mattino, i buoni-spesa del supermercato. Il testo diventa invece un po’ troppo psicologico – e dunque lievemente sentimentale – quando scivola negli affetti privati, nel rimpianto di un’autentica relazione con un compagno che è tale soltanto agli occhi degli estranei. Il lungo pianto è fuori posto. Ma è piuttosto eloquente il momento in cui, calzando una parrucca e impugnando una pistola, la borghesuccia mancata si trasforma in spietata guerrigliera.

Corriere della sera - Maurizio Porro […] Non è l'unico a toccare i nervi scoperti degli anni di piombo, visti ora a giusta distanza. A Milano, al Teatro dell'Arte, è andato in scena col gruppo «Animanera» un monologo che resta nel limbo tra cuore e cervello, «Figli senza volto», adattamento di Aldo Cassano di un testo di Ida Farè recitato in uno spazio angusto e schermato dal tulle dalla brava Natascia Curci. Una donna normale in un condominio popolare: scopriamo che si tratta di una coppia di terroristi in clandestinità. Le domande che pone Cassano riguardano un'Italia anni 70 che non si fa più conoscere solo coi ritagli di giornali, blog tv o i refrain di Mina, dimostrando come anche le idee rivoluzionarie vengano ingoiate e digerite dal potere multinazionale dalla pubblicità, straziante finale di un atto teatrale quasi beckettiano. «E se domani...» qui sembra un grande song di Kurt Weill.

Repubblica.it - Gisella Rotiroti Tremano i fili della memoria ad avvolgere parole di fuoco in sentimenti di vetro, per farsi strada fra pezzi di umanità stracciata, nutriti di rabbia e paura, che trascinano il ricordo del terrore nel presente della Storia. Sul proscenio un velatino traccia il confine invisibile fra l’orrore esteriore della rivolta armata e la sua fragile intimità, ne svela il retroscena “dietro la barricata”, il corpo vulnerabile, alienato, l’angoscia di una segreta e mutilata quotidianità. Figli senza volto è l’adattamento teatrale del racconto di Ida Faré, Come voi. Anni Settanta, quartiere di periferia di una città del Nord, una casa uguale a tante altre, ci troviamo ad osservare, separati dallo “schermo” del giudizio comune, la vita privata di una terrorista: i piatti da lavare, la sveglia del mattino, il caffè sul fuoco, la televisione. Inginocchiata sul tappeto la vediamo intenta a ritagliare ossessivamente dai giornali le fotografie dei suoi compagni, volti che hanno un nome solo quando uccidono e sono uccisi; si nasconde dentro il suo corpo, respinge la paura per trasformarla in collera, odio, ribellione. Le bianche mani tremanti, nel compiere piccoli gesti fra gli oggetti dell’appartamento - giradischi, vestiti, sigarette - sono le stesse che premono il grilletto. E mentre questa “sposina smorta” vive nell’ombra, divora la sua ansia, ascolta i passi dei vicini, misura il silenzio e il rumore, fra noi e la sua vita invisibile si frappongono, proiettate sullo schermo, le réclame pubblicitarie dell’epoca, le canzoni di Mina nei varietà del sabato sera e le previsioni metereologiche del colonnello Bernacca; “il filo della ribellione pura” annega e si disperde dentro “l’acqua della ribellione amara”: le immagini consolatorie della televisione cancellano il sangue, riscrivono la Storia, proprio come avviene sulla scena quando le parole in sovraimpressione nascondono ed esautorano definitivamente dallo sguardo il corpo della protagonista. Figura di un dramma che si interrompe sulla soglia e da cui si rimane isolati, straniati, lontani, come dietro una porta mal chiusa.

Persinsala.it - Francesca Ruina Animanera è un gruppo eterogeneo, impegnato nelle tematiche sociali, veicolate in modo originale e provocatorio dai suoi fondatori – Aldo Cassano, Natascia Curci, Antonio Spitaleri e Lucia Lapolla – che troviamo tutti in questo spettacolo. Preziosa per la compagnia è stata la collaborazione con Ida Farè, autrice del testo, tratto da Come voi, racconto pubblicato ne Il pozzo segreto, Cinquanta scrittrici italiane (Giunti, 1993). Siamo negli anni Settanta in un appartamento come tanti di un condominio come tanti, di un quartiere periferico del nord come tanti. Il tipico arredo di quegli anni, i vestiti e le acconciature di Natascia Curci – unica protagonista della scena – trasudano normalità, omologante frustrazione. Sembra di avere di fronte una casalinga, anche un po’ stereotipata, alle prese con la tipica routine da mura domestiche: piatti da lavare, sveglie mattutine, caffè, giradischi e televisione. Ma qualcosa stride, qualcosa ci trasmette fin da subito il sentore che le cose non stiano davvero così. Sarà l’estrema attenzione con cui l’inquieta protagonista cerca di carpire e interpretare i suoni che vengono da fuori. Saranno i passi dei vicini che sembrano calpestare la sua libertà e quella del suo compagno. Saranno i suoni – che rimbombano nella perfetta acustica dell’intimo spazio in cui si svolge la scena – che si amplificano, che vogliono entrare, che diventano ancor più minacciosi nel momento in cui si alternano alle réclame pubblicitarie o a stralci di vecchie trasmissioni televisive. L’apparente normalità che ricopre il racconto viene vomitata su una sorta di rete trasparente posta di fronte allo spazio scenico, che copre, con interessanti giochi di luce e di proiezioni, l’immagine di una donna senza volto, nascosta, impaurita, arrabbiata. La intravediamo mentre ritaglia dai giornali fotografie di volti senza nome, di identità svuotate, incollandole una a fianco all’altra, come a donargli un percorso, una storia, una consistenza. Come a donarla a se stessa e alla sua vita. Perché lei è come loro, una di quelle immagini di cui nessuno conosce il nome, costretta a nascondersi, a scomparire, per aver scelto di muovere guerra a un sistema annichilente, per aver tentato «l’assalto al cielo». Questo spettacolo dà una lettura della lotta armata molto diversa da quella che ci si aspetterebbe. Non vediamo guerre di potere e nemici che si fronteggiano, ma il riflettore è puntato piuttosto sul retroscena, sulle attese, sulle paure, sulle mura fisiche e interiori che si scolpiscono intorno ai suoi protagonisti. È la storia di quei figli cui il potere, lo Stato, ha tolto volti, nomi e identità. È la storia di pistole puntate rabbiosamente fuori, ma è ancor di più la storia del ritorno di quel proiettile dentro. È l’amarezza del restare ingabbiati nella prigione che si voleva espugnare, diventando l’immagine speculare del proprio nemico. L’amarezza sgorga dagli occhi, dalle mani, dalle labbra della bravissima Natascia Curci, attraverso le parole, dure e profonde, di Ida Farè: «ho seguito il filo della ribellione pura, l’acqua della vita. Sono state le vostre mani a intorbidirla di morte, ma eravate più forti e ho dovuto raccogliere le armi che mi avete consegnato. Sono diventata come voi. Ho bevuto l’acqua della ribellione amara». Voto 8/10

Lospettacoliere.it - Paolo A.Paganini Il titolo “Figli senza volto”, meglio di “Come voi”, è senz’altro più drammaticamente contingente rispetto all’assunto di questa breve pièce, ambientata negli anni di piombo di quel disgraziato periodo, quando il delitto Moro mise praticamente fine al Brigatismo e ai sogni d’un giovanile ribellismo velleitario che, dopo di allora, rinunciò a dare l’assalto al cielo. Già tanto non sarebbe comunque cambiato niente: la TV in bianco e nero sarebbe proseguita nel suo inarrestabile processo di civile rincoglionimento, mentre il colonnello Bernacca avrebbe continuato a meteorologicizzare le italiche angosce dei borghesi finesettimana tra nebbie in Valpadana e piogge al Sud, e Mina avrebbe ancora a lungo gorgheggiato nei varietà del sabato sera. Ma quei “figli senza volto”, che nessuno volle mai mitizzare, neanche con questo inquietante spettacolo, erano quegli stessi nostri figli, a noi sconosciuti, che non capimmo mai, che non sapemmo salvare, che si dannarono in un inferno di sangue, mentre noi ci preoccupavamo di comprare energetiche merendine. Natascia Curci: bravissima. Le sue lacrime di rabbia e di dolore non erano un trucco scenico. Erano vere, erano le nostre.

exibart.com - Francesca Pasini Il monologo è tratto dal racconto di Ida Farè, Come Voi, (Il Pozzo Segreto, Giunti 1993). Lo recita in modo impeccabile Natascia Curci, regia Aldo Cassano, scene Valentina Tescari. Racconta la giornata anonima di una militante tra il 1981-82, durante la sconfitta delle Brigate Rosse e della lotta armata. Un velo separa la scena dagli spettatori e crea una specie di leggero appannamento, simbolo del tempo, della distanza, dell'intimità. Il tempo irrompe in modo molto efficace attraverso la proiezione, sul sipario trasparente, di telegiornali dell'epoca che raccontano gli eventi e di un frammento dei "Comizi d'amore" di Pier Paolo Pasolini del 1965, dove una moglie, in presenza del marito, dichiara di prendere la pillola per non aver altri figli e il suo apprezzamento per le proposte del femminismo. Così il racconto individuale trova il panorama storico. Una sceneggiatura molto incisiva e un modo efficace per trasmettere la complessità delle radici di quell'assalto al cielo a giovani nati dall' 80 in poi, che spesso sono attratti dagli anni '70, ma che non hanno modo di confrontarsi. Quella storia è ormai chiusa nella definizione di terrorismo, utilizzata come uno stereotipo, più che come lettura critica. Come sottolinea la scena finale con la proiezione della attuale pubblicità della Coca Cola, una imitazione di un assalto armato, di "attacchi di violenza", dice proprio così. L'arte può comunicare la complessità della critica quando crea sintesi espressive che fanno discutere. Non obbediscono alla regola dei numeri, non provocano svenimenti, ma domande e giudizi.

paneacquaculture.net - Vincenzo Sardelli Starebbe bene come spazio performativo in una mostra sugli anni Settanta Figli senza volto, messo in scena dai milanesi Animanera, bel testo di Ida Farè, regia di Aldo Cassano, con una Natascia Curci di forte impatto. Una storia calata negli Anni di Piombo. Una militante della lotta armata, tra quotidianità e anonimato, affetti e ideologia. Ma qui tutto è angusto, il movimento, la parola, l’anima: «Ho seguito il filo della ribellione pura, l’acqua della vita. Sono state le vostre mani a intorbidirla di morte, ma eravate più forti e ho dovuto raccogliere le armi che mi avete consegnato. Sono diventata come voi. Ho bevuto l’acqua della ribellione amara». Casermone popolare di una città del Nord, appartamento come tanti. Una donna sola, volto smunto, sottana, maglione a trecce. Moquette, sedia. Elettrodomestici dal design postmoderno: tv, ferro da stiro, videocamera. Borsa, scarpe. Giradischi, note su vinile: la struggente Ultima neve di primavera di Franco Micalizzi, l’acid rock di White Rabbit dei Jefferson Airplane, Rain and Tears degli Aphrodite’s Child, colonna sonora del Maggio francese: a volte sono i figli a tradire i padri. Portacenere, cicche, fumo: gli oggetti (spazio scenico Valentina Tescari, costumi Lucia Lapolla) hanno contenuti emozionali. Ritagli di giornale, Polaroid, pistola, parrucca: travestimenti, anche della sfera affettiva. Patimenti, pentimenti. Anche le luci da interior design (di Beppe Sordi) sono emozionali, la progettazione dell’epoca era così spiazzante. Le luci dilatano ombre, le ombre i gesti. Gesti di mani intorpidite. Mani che tremano, sparano, uccidono. Un velo sottile separa una vita dalle nostre. Due mondi, due epoche. Siamo in intimità, a volte in empatia, persino. Dietro la quotidianità di un uomo e di una donna, gesti e azioni banali, si cela l’angoscia di due terroristi. La scelta della lotta armata. L’esistenza nell’ombra. L’ansia di nascondersi, dalla polizia, dai vicini, dal letturista del gas. Anche noi ci sentiamo braccati. Dall’urgenza di trattenere il tempo. Dalla giovinezza che vola. Da passato e futuro intrecciati, sospesi, nell’emozione dei silenzi. Figli senza volto ce li ricorda bene quegli anni: le sigle di fine programmazione della Rai, il meteo di Bernacca, Kraft-cose-buone-dal-mondo, Bontempi e la musica a portata d’infante. C’è questo nello spettacolo, e anche il resto: le armi, l’isolamento, le atmosfere livide e profonde. Gli effetti audio (di Antonio Spitaleri) s’intersecano in uno straniante climax: borbottio di caffettiera, ticchettii di macchina da scrivere, sveglia, bomba a orologeria, spari di mitragliatrice, rombo di terremoto. Suoni meccanici. Come la voce della protagonista, fredda e metallica. Come i colpi delle P38. E sangue, a fiotti. C’è un climax anche olfattivo: sigarette, fumo, barricate, molotov. A squarciare il grigio dilagano, proiettati sul velo, effetti caleidoscopici, a creare un acquario psichedelico che è fuga, fantasia, filtro per una danza nell’ombra della protagonista. C’è un contrappunto, cose di un altro mondo: E se domani di Mina, l’intervista a una donna siciliana che prova a emanciparsi tra una fuitina d’amore e un paio di aborti, all’epoca clandestini anch’essi. Brandelli esistenziali, ideologie perdenti, amori (e valori) smarriti. Nostalgia, disperazione. Che cosa resta di quegli anni, delle battaglie, di chi sacrificò la vita, propria e altrui? Scorre sul velo-schermo-sipario, come titolo di coda, un bilancio di quelle ferite, curato da Giorgio Galli. A precederlo immagini della Tv contemporanea, Porta a porta, Il grande fratello, X-Factor, La prova del cuoco, Affari tuoi. Didascalia preziosa per alcuni, pedante secondo noi. Occorreva un finale, e forse è l’unica scaglia da limare di questa messinscena di grande intensità. Che ci ha trasmesso ricordi ed emozioni. E riflessioni, ancora nuove. Quarant’anni dopo.

Stratagemmi.it - Alessandra Cioccarelli Chi erano gli uomini e le donne che negli anni di Piombo presero parte alla lotta armata? Cosa ne è stato della loro ribellione? A questo interrogativo cerca di rispondere Figli senza volto, una produzione firmata Animanera e Crt Milano, in scena per la regia di Aldo Cassano. Al centro dello spettacolo, tratto dal racconto Come voi di Ida Farè, la quotidianità di una coppia di terroristi, che vivono in un casermone della periferia di una non precisata città del Nord. Una vita banale e uguale a quella di tanti altri, fatta di sveglie, piatti nell’acquaio, vestiti da stirare, cene davanti alla tv e giradischi sintonizzato sulle novità del momento. Dietro questa apparente normalità i gesti di un’intensa Natascia Curci, sola sulla scena, ci svelano poco alla volta l’esistenza clandestina della protagonista e del compagno: la sorveglianza ossessiva dei vicini, l’ascolto dei passi e di ogni rumore sospetto, l’ansia di nascondersi dalla polizia. E, soprattutto, l’isolamento totale imposto dalla scelta della lotta armata. Vestita come un’insospettabile casalinga, la giovane donna si aggira per le edicole di zona e, barricatasi tra le mura domestiche, ritaglia dai giornali con religiosa cura fotografie di volti senza nome, di identità inghiottite dall’anonimato. Incolla, quindi, queste immagini una a fianco all’altra come a restituire loro una seconda vita, e con essa, una possibilità di riscatto. A questi uomini, figli della società del benessere e della crescita economica, che tentarono “l’assalto al cielo” e si unirono alla causa delle Brigate Rosse, lo Stato ha sottratto volti, nome e storia, bollandoli sotto la generica etichetta di ‘terroristi’. A separare la platea dalla claustrofobica stanzetta in cui si svolge l’azione è uno schermo-sipario trasparente, sui cui scorrono frammenti televisivi di repertorio: dalle accattivanti réclame pubblicitarie dell’epoca ai gorgheggi di Mina nei varietà dei sabato sera, dalle dettagliate previsioni metereologiche del colonnello Bernacca alle sigle Rai di fine programmazione. L’effetto è provocatorio e dissonante: quasi il clima di sangue e di violenza fosse conseguenza naturale di quel rassicurante (ma forzato) ottimismo che vediamo sullo schermo. La giovane militante rivendica peraltro un protagonismo consapevole anche alle donne brigatiste, giudicate troppo spesso come semplici banderuole, in balia delle volontà e decisioni di compagni o mariti. Lontana da qualsiasi intento di mitizzazione o demonizzazione, la compagnia milanese con questo lavoro intende riaprire una pagina ancora dolente della cronaca italiana e farci riflettere sulla necessità di una lettura critica non superficiale. E Figli senza volto conferma ancora una volta l’impegno di Animanera in tematiche di impegno, spesso evitate perché ritenute scomode o sconvenienti: un’indagine senza sconti delle zone d’ombra e delle pieghe oscure della nostra società. Il più lontano possibile dai vari Grandi Fratello, Affari tuoi e La prova del cuoco, le cui immagini chiudono provocatoriamente lo spettacolo.

Corrieredellospettacolo.com - Greta Salvi «Sono come voi. Uguale», scandisce la donna. L’ingresso degli spettatori la sorprende già in scena, mentre riordina ritagli di giornale. Sembra vicinissima, ma è irraggiungibile: si rivolge direttamente al pubblico, da cui la separa un velo di tulle, impalpabile e impenetrabile. La protagonista di Figli senza volto è anonima, come lo spazio in cui si muove, in cui pochi oggetti comuni (un giradischi, un piccolo televisore) evocano gli anni Settanta. É anonima, perché è il simbolo di tutti gli uomini e le donne che in quel periodo hanno abbracciato la lotta armata. É anonima, perché a quelli come lei l’anonimato garantisce la sopravvivenza. Con Figli senza volto, Animanera Teatro racconta il terrorismo brigatista da una prospettiva inedita. Il monologo, per la regia di Aldo Cassano e interpretato dalla bravissima Natascia Curci, è tratto da "Come voi", racconto di Ida Faré, ex giornalista de «Il Manifesto», contenuto nel volume Il pozzo segreto. Cinquanta scrittrici italiane, (ed. Giunti). Presentato in anteprima durante la scorsa stagione, lo spettacolo, in scena fino al 15 febbraio, torna in versione integrale al CRT di Milano. Il monologo non fa sconti nel condannare la violenza del terrorismo, ma rappresenta anche l’angoscia di una scelta estrema e non risparmia a j’accuse all’Italia di allora, alla società del benessere che ha cresciuto ed educato quei figli che poi le si sono rivoltati contro. Figli e figlie entrati nella clandestinità, che non hanno più un volto, che non sono più uomini né donne, ma solo incarnazione della lotta. Figli e figlie che riacquistano una fisionomia solo quando le loro facce emergono dalle pagine dei giornali, quando sono braccati, inseguiti e uccisi, dopo aver a loro volta braccato, inseguito e ucciso. «Ho seguito il filo della ribellione pura, l’acqua della vita. Sono state le vostre mani a intorbidirla di morte, ma eravate più forti e ho dovuto raccogliere le armi che mi avete consegnato. Sono diventata come voi. Ho bevuto l’acqua della ribellione amara», denuncia la donna senza volto e senza nome. Dietro i suoi gesti quotidiani, dietro la facciata di normalità che lei e il suo uomo fingono, si celano la tensione, le riunioni segrete con i “compagni”, la paura di essere scoperti, l’alienante perdita di identità. E si cela anche la frustrazione di donne a cui l’opinione pubblica non riconosce una scelta individuale e consapevole, anche se estrema, e che dipinge prevalentemente come succubi dei loro uomini, plagiate dal controllo maschile. Il testo è intenso, teso, serrato, scandito da filmati di repertorio proiettati sul velo di tulle. Un velo che chiude e isola lo spazio scenico, simboleggiando il paradosso di una donna che aspirava alla libertà e che si ritrova prigioniera dell’anonimato, in uno squallido appartamento di periferia. Figli senza volto fa riflettere su un periodo della storia italiana di cui si parla poco, aggiunge sfumature ai giudizi unilaterali con cui abitualmente viene liquidato il fenomeno delle Brigate Rosse. Ma uscendo dalla sala, si è portati a interrogarsi anche sul presente, sul terrorismo, di matrice islamica che ha investito le società occidentali con violenza devastante. Pensando ai volti cancellati dal burqa delle terroriste, ai volti di uomini, talvolta cresciuti e vissuti accanto a noi, che fissano l’obiettivo di una telecamera mentre decapitano un ostaggio, emergono domande inquietanti: chi ha armato la loro mano? Chi sono? E se fossero come noi?